lunedì 17 ottobre 2011

Un'altra intervista, questa volta a Giacomo Civettini, giovane scrittore romagnolo e studente di Lettere all'Alma Mater di Bologna. Il suo "Temporali nuove" è stato anch'esso pubblicato nel 2009. Pur essendo il suo primo romanzo, ha avuto molto successo a livello locale ed è stato presentato alle conversazioni letterarie MobyCult dell'estate 2009.
Et voilà, pubblicata su "la Voce di Romagna", inserto del lunedì  "la Voce delle donne", l' 1/08/2009

 

“TEMPORALI NUOVE”- intervista a Giacomo Civettini

Giacomo Civettini, giovane scrittore riminese nonché studente della Facoltà di Lettere a Bologna e allenatore di pallacanestro, ha esordito nel mondo dell’editoria con la raccolta di novelle “Temporali Nuove”, seconda sua produzione, riscuotendo immediato interesse.
A costituire il filo conduttore è un’esistenza fuori dal coro, ebbra di giovinezza, al limite della follia, che tiene strette in pugno le comuni convinzioni del mondo e le plasma, le calpesta, le domina e le irride. Si delinea così il percorso di crescita di un’anima nobile e al contempo “bruciata”, perennemente in equilibrio fra razionalità e devianza.
In anteprima alla presentazione della sua opera all’interno della manifestazione “Moby Cult”, che si svolgerà a Rimini dall’1 al 30 agosto, Giacomo mi concede un’intervista, desideroso di un contatto più diretto con un pubblico di estimatori giovani e meno giovani.
Quanto è importante per lei scrivere? Come si è avvicinato al mestiere di scrittore?
Subito dopo la maturità ho smesso di giocare a pallacanestro a livello agonistico, e ancora non avevo scelto il percorso universitario. Perciò, in quei due, tre mesi di stand- by, ho cominciato a scrivere il mio primo romanzo, un giallo, per passare il tempo, cimentarmi in qualcosa di nuovo e diverso. La scoperta di un’inclinazione per la scrittura è inoltre servita ad orientarmi negli studi.
Giacomo, detto Jack, narra in prima persona momenti salienti della propria infanzia, adolescenza ad età adulta. Sembrerebbe una sorta di autobiografia, ma ciò è anagraficamente impossibile. Quanto assomiglia Jack a Giacomo Civettini?
Jack, protagonista delle novelle, è un mio alter ego potenziato: sono riflessivo, pigro e un po’introverso per natura. Sono stati i miei amici, allegri, vulcanici, in cerca di emozioni forti, a tirarmi fuori dal mio guscio, ad aprirmi le porte di un’esistenza unica, coraggiosa e alternativa. Il gruppo esorcizza le paure, non ti lascia mai solo, ti interroga, ti mette alla prova. Perciò molti dei personaggi delle novelle esistono realmente e le avventure notturne degli anni giovanili prendono spunto da fatti reali. Per esempio, non sono mai andato in motoscafo alla Baia Imperiale, né sono esperto di nautica, ma una sera avevamo in programma un giro in barca, che poi non si è mai effettuato.
Jack è una sorta di  antieroe moderno che si ribella ai tentativi di omologazione della società a suon di serate da sballo, alcool e, in minor misura, droga. Non nego che l’estasi dionisiaca spinga a sconsideratezze che normalmente non si farebbero, ma come ritenere che si possa veramente scuotere gli animi con simili mezzi?
Mi appassionano gli autori della Beat Generation, che palesavano il loro malessere nei confronti della società in maniera esplosiva e sregolata: fumavano, si drogavano, falciavano chilometri senza meta. Ho fatto mia quella filosofia di vita, più che negli atti negli ideali: bevendo allontani il “nemico invisibile” che ti fa soffrire e ti senti libero di sfogarti, di infrangere le regole, anche se per poco tempo.
Nella vita di Jack ci sono molti vagabondaggi, lavoretti saltuari e mal pagati, nessun punto di riferimento. Non è meglio che i giovani usino le proprie forze per cambiare la società dall’interno, piuttosto che viverne ai margini per poi estromettersene volontariamente?
Il lettore attento capirà che non ho affatto voluto inneggiare alle devianze. Lo scopo di Jack e dei suoi compagni è quello di mostrare un’alternativa ad una società che appiattisce ed annulla ogni originalità; i mezzi che ho scelto sono volutamente volti ad impressionare: le emozioni che ne scaturiscono sono incontrollabili, potenzialmente pericolose, è vero, ma nascono da un malessere autentico, e non finiscono per ledere la libertà di nessuno. Credo che i giovani d’oggi debbano saper scegliere consapevolmente i loro modelli, cambiare le regole, se necessario, ma con testa. Se una devianza diventa moda di massa (penso ad esempio al fenomeno Emo), il malessere che ne era originariamente sotteso si perde, diventa finto. Se ti tagli perché fai fatica a trovare il tuo posto nel mondo, non te ne fai motivo di vanto: allo stesso modo, quando (per un periodo ho avuto problemi di alcolismo) mi trovavo a bere da solo, non ne andavo fiero.
Il rifiuto della religione e di ogni colore politico non le impedisce di attribuire valore al destino.
In realtà, non è il destino a preoccuparmi. L’essermi immaginato barbone può essere benaugurate per il futuro, perché così posso sperare in qualcosa di meglio!(ride) Direi che ciò che più mi ossessiona è lo scorrere del tempo, il sapere che prima o poi vivrò di ricordi, che, inibito dalla vecchiaia, potrò perdermi qualcosa.
Alla fine Jack si ritrova sfiduciato, incompreso e solo contro tutti; l’unica arma che gli rimane è l’indifferenza. Perché, però, considera la sua condizione di barbone migliore di quella di Lucio, architetto famoso e stimato?
Jack è un “sovvertitore”, un “overreacher”: nonostante tutto rimane fedele ai propri ideali; pur avendo fallito la sua missione principale, non dà alla società la soddisfazione di averlo inglobato. Trovo invece difficile che uno come Lucio, con un lavoro stimolante, una famiglia, una buona posizione, riesca a guardare le gaie prodezze della giovinezza senza malinconia e possa avere la fantasia di creare situazioni particolari anche a quarant’anni, con la stessa voglia di immortalità. Quelli che ce la fanno sono highlanders, uomini che vivono ad una frequenza più alta degli altri.
Jack non è per nulla stupido, è anzi dotato di grande sensibilità. Le novelle sono costellate da eventi simbolici su cui il protagonista, e il lettore insieme, sono portati a riflettere. Alcune però sono davvero difficili da capire. Come si possono interpretare?
Mi è piaciuto arricchire di visioni struggenti e metaforiche alcuni “passaggi di vita”, sulla falsariga delle epifanie di Joyce, che consistono appunto nel rievocare un ricordo nel momento in cui giunge una particolare percezione inaspettata. Quelle che considero più significative sono quelle che si svolgono sul lago. La distesa d’acqua rappresenta la società da cui dipendono i pescatori per il proprio sostentamento: a volte, come il pescatore che non prende nulla, non troviamo in essa nulla che fa per noi, altre volte invece sembriamo avere successo per poi perdere improvvisamente tutto, come il pescatore che rimane senza una mano, a volte dobbiamo difenderci anche dai cigni, natura “matrigna” che ci “corrode” lentamente.
Lo scenario privilegiato delle novelle è Rimini, simbolo di trasgressione ma anche luogo di ricordi (la campagna di Perticara) e di tradizioni (la “focheraccia”). Così l’anticonformismo diventa parte integrante della “grezzuria” del riminese doc. Senza Rock Island o Fontana della Pigna le esperienze di Jack avrebbero assunto un significato diverso?
Certamente. Rimini in fin dei conti è un paesone dove ci si conosce tutti, una città aperta al divertimento, alla cultura, al sagre, agli incontri. Rimini è ospitale, caratteristica, vitale, una specie di mondo in piccolo. Al contrario Bologna è sfuggente, vialoni grigi in un’immensa periferia: perfino il centro è dispersivo, non lascia traccia negli animi.
Lo stile è schietto, volutamente colloquiale, persino nell’intercalare, salvo poi innalzarsi nei momenti meditativi. Quale dei due registri ti rispecchia di più?
Sono stato rimproverato dal mio editore per il linguaggio troppo dotto, che andava ad “appesantire” tematiche già non facili. Per i lettori meno perspicaci, dunque, ho aggiunto l’introduzione e reso le parti narrative più vivaci e simili alla parlata degli eterni scontenti della Beat Generation, cui ho voluto rendere omaggio. Comunque preferisco i periodi ipotattici, che solleticano gli intelletti e lasciano dietro di sé emozioni ingarbugliate.
Da poco ha intrapreso la stesura di una nuova opera. Qualche anticipazione?
Nel prossimo romanzo vedrete dialogare, in rivisitazione della “maniera” pirandelliana, le due diverse componenti del mio carattere: quella ritrosa e indolente con quella avventurosa e alternativa. Non so ancora quale avrà la meglio!
                                                                                                      Giulia Ceccarelli
Bene, questi erano gli "articoli di fondo", i saggi d'opinione, che ho scritto dai primordi fino ad ora, più o meno in ordine cronologico. Ora passiamo al genere intervista:
questa è l'intervista a Daniela Donati, scrittrice del libro per ragazzi "Il Grande Puf", pubblicato nel 2009.
E'stata preparata e redatta completamente da me e pubblicata su "La Voce di Romagna" nell'inserto settimanale del lunedì "La Voce delle donne", il 23/06/2009


E SE TI ACCOGESSI CHE…SONO TUTTI SCOMPARSI? 

“IL GRANDE PUF” Intervista all’autrice Daniela Donati

All’interno della manifestazione culturale Mare di Libri, svoltasi a Rimini dal 12 al 14 Giugno, Daniela Donati, scrittrice riminese per ragazzi nonché insegnante di lettere alla scuola media “A. Marvelli”, ha presentato il suo nuovo romanzo “Il Grande Puf”, vincitore del prestigioso premio Mondadori Junior Award.
Il romanzo narra l’esperienza di Luigi, un quindicenne apparentemente come tanti: ha il motorino, il cellulare, un mucchio di amici non propriamente affidabili, una madre trasognata e apprensiva e un padre troppo sicuro di sé. Ma, inaspettatamente, il suo mondo viene sconvolto dal Grande Puf, un evento inspiegabile e sconcertante che lo fa rimanere completamente solo nella sua città di oggetti inanimati. Inizia così un solitario percorso di crescita e formazione, un vero e proprio viaggio, fisico e metaforico, verso la maturità.
A seguito del successo di pubblico e critica, Daniela mi concede un’intervista, desiderosa di un contatto più diretto con i suoi appassionati lettori in erba.
Quanto è importante per lei scrivere? Come si è avvicinata al mestiere di scrittrice?
Mi considero una scrittrice tardiva. Da ragazzina non ho mai scritto racconti: questa esigenza è nata da adulta e da insegnante, per riorganizzare e sviluppare gli spunti che mi venivano dalla vita familiare o da laboratori scolastici. Per esempio “L’alzabambini”, la mia prima produzione, è nato da un gioco con cui mio marito diverte i nostri due gemellini, Giovanni e Ascanio, per destarli alla mattina e cominciare di buonumore la giornata.
Come è nata l’idea del Grande Puf?
Ho deciso di affidare alla mia classe un tema analogo: cosa faresti se ti trovassi all’improvviso completamente solo? La proposta mi sembrava accattivante perché richiedeva di lavorare di fantasia, ma partendo da una situazione verosimile, in cui fosse facile immedesimarsi. Viste le interessanti  soluzioni prospettate dagli alunni, mi ci sono cimentata anch’io. Ed ecco il risultato.
Luigi, rimasto solo, si pone grandi domande. Quindi il Grande Puf può essere considerato un libro per adulti? Esistono libri per bambini e libri per adulti?
Il primo interrogativo di Luigi, che si sente vittima della crudeltà degli eventi, è “Perché proprio io? Che cosa ho io di speciale? Cosa mi ha permesso di continuare a esistere in una realtà di scomparsi?” Il bisogno di risposte diventa, nella sua condizione di naufrago in un’isola deserta grande come il mondo, vera e propria necessità. Pian piano prende coscienza del fatto che non può essere stato abbandonato lì per caso: si allena e pensare a sé stesso come a un eroe, a un epico fondatore, un nuovo Prometeo compartecipe della creazione di un nuovo mondo. Da arguto, attento osservatore qual è, raccoglie la sfida e accetta il peso di questa responsabilità, dopo aver lasciato dietro di sé, a ricordo e monito di ciò che era stato, una poesia in bottiglia.
Il Grande Puf è un romanzo familiare, perfetto per la lettura congiunta di ragazzi e adulti: per i primi è la fresca schiettezza del protagonista a risultare accattivante, i secondi possono apprezzare l’ampiezza dei temi trattati (educazione, adolescenza, solitudine, consumismo, violenza) e svelare la drammaticità che si cela dietro la sottile ironia. Anche se lo scrittore usa una strumentazione linguistica e contenutistica adeguata al suo target principale, trovo fondamentale che non snaturi sé stesso per colmare lo stacco di età e mentalità che lo separa dal suo pubblico. Se è un adulto, un adulto deve restare: nonostante il narratore sia Luigi, si rende a tratti evidente il punto di vista dell’autore.
Perché l’assennato Luigi compie atti di violenza? Tra di essi il più emblematico è l’incendio della scuola.
Rimasto solo, Luigi si sente di rappresentare l’umanità intera, la totalità dei possibili percorsi di vita. Da qui prende forma la sua esigenza di sperimentare nuovi passatempi e nuovi divertimenti, come quello di lanciare petardi e sparare sulle vetrine. Nel “mondo alla rovescia” deve essere ancora definito che cosa è giusto e che cosa è sbagliato; un maturo codice di valori si avrà solo nel finale; anche gli atti vandalici si stemperano perché privi di conseguenze, di punizioni, di testimoni. L’incendio della scuola, come anche lo scagliare telefonini contro un muro, sono però il simbolo di una discontinuità con il passato. L’istituzione scolastica dopo il Grande Puf risulta inadeguata e deve purificarsi nel fuoco per trasformarsi in apprendimento autodidatta; così l’uso dei telefonini è inutile, quasi come parlare: per comunicare con se stessi basta pensare.
Gli adulti, presenti nei ricordi del protagonista, non fanno una bella figura. Cosa non va nel passaggio generazionale?
Come insegnante, spesso mi trovo davanti genitori arrendevoli ed evanescenti, che non comprendono le esigenze dei figli e sono privi di strumenti per formare in loro una coscienza critica. Gli adulti a volte non sono preparati a svolgere il mestiere di genitori, che richiede nuove modalità di rapporto nella coppia, con gli amici e nell’ambito lavorativo. Il figlio sembra un ostacolo alla soddisfazione dei desideri dei genitori.
Perché alla fine si inserisce, come unico personaggio, un cane?
L’incontro con un altro essere vivente voleva stendere sul finale un velo di ottimismo. Una presenza umana però sarebbe stata troppo determinante: la svolta narrativa mi avrebbe portato a continuare il romanzo. Mi sono anche chiesta se Luigi volesse essere  lasciato solo: quando un personaggio è ben costruito, condiziona con vera personalità le scelte del suo autore.
Se il protagonista fosse stato femminile, cosa sarebbe cambiato?
Non ho scelto un protagonista femminile in quanto preferisco mantenere un certo distacco fra la mia esperienza biografica e la mia interiorità di donna, e le caratteristiche dei miei personaggi. Inoltre, una ragazza sarebbe stata più facilmente incline a sdolcinati sentimentalismi: non volevo ricadere nello stereotipo dell’imbranata melodrammatica. Forse però sarebbe stato interessante far uscire dalla penna una giovane spigliata e decisa.
Benché il finale sia aperto, come immagina il Luigi adulto?
Non ho ancora seriamente pensato ad una continuazione, comunque mi piace immaginare che Luigi incontri altre persone in altre parti del mondo che si trovano nella sua stessa situazione e costituiscano insieme una sorta di società ideale.
Come spiega la preferenza accordata di recente dai ragazzi al genere fantasy?
Il genere fantasy è come il Bridge!(ride). Entrambi costituiscono un mondo a parte, con le sue carte da giocare, i suoi nomi, i suoi tavoli, le sue regole. Per il lasso di tempo in cui legge o gioca, il lettore/giocatore deve farsi personaggio fra i personaggi in una realtà parallela, identificarsi, appassionarsi. Se non ce la fa, perde la bellezza del fantasy, o la partita di bridge. Il fantasy non è fra i miei generi preferiti, ho una certa difficoltà a infilarmi nei suoi schemi: preferisco il romanzo verosimile, anch’esso non privo di avventura. I ragazzi sono avvantaggiati: draghi e cavalieri scuotono la loro emotività più di quanto accada agli adulti. Quale ragazzo non vorrebbe essere un cavaliere?
Come sa, ho letto la bozza del racconto, cosa è cambiato nell’edizione definitiva?
Ho deciso di inserire il personaggio del cane quando alcuni amici cui avevo affidato il manoscritto in lettura mi hanno chiesto se il mio intento era quello di lasciare l’immagine finale di un ragazzo depresso e sconsolato con tendenze suicide. Siccome non mi piaceva mettere in scena un antieroe perdente, ho escogitato una soluzione diversa. Qualche problemino c’è stato anche per l’inserimento della poesia di Montale, per la quale sembrava che non mi concedessero i diritti a causa dell’uso un po’anomalo (all’interno di una prosa d’autore) che intendevo farne, tanto è vero che in alternativa sarebbe andata alle stampe una specie di parafrasi del protagonista sulla poesia stessa. Per fortuna i diritti sono arrivati!
Si è ispirata alle atmosfere di Cormac McCarthy, che pure narra la storia di un padre e un figlio dopo la catastrofe?
Ho letto “La Strada”, ma solo dopo aver ultimato il Grande Puf. Trovo straordinario leggere nelle opere di altri le mie stesse idee, benché l’intento, il contesto e lo stile di McCarty siano estremamente diversi dai miei.
Il messaggio del libro è la necessità di rivalutare gli impalpabili rapporti affettivi in un mondo governato da oggetti anonimi, ma concreti?
Non proprio. Ho cercato di far risaltare quanto più possibile l’importanza dell’affermazione di individualità all’interno del gruppo: gli oggetti rappresentano tutte le principali casistiche in cui i giovani tendono ad incasellarsi pur di non essere esclusi dai coetanei: moda, armi, sport. Luigi è solo perché deve imparare ad analizzare criticamente il comportamento degli amichetti, è solo perché deve sopravvivere senza modelli per capire veramente chi è.
Quanto può essere ampia la libertà di interpretazione del lettore, senza tradire gli intenti dell’autore?
Il carattere polisemico del romanzo non mi disturba, anzi mi intriga. Tecnicamente non credo esista un limite alla libertà di interpretazione, perché la scrittura parla al cuore in modo diverso a ognuno, a seconda delle sue esperienze, del suo stato d’animo, sul suo livello culturale, della sua sensibilità. Però delle linee guida per la comprensione ci devono essere.
Nicolò Ammaniti ritiene che la “noia” sia fondamentale nella crescita di un ragazzo. Quale pensa sia la giusta combinazione fra “socialità” e “solitudine”?
La “ricetta” per diventare adulti equilibrati è non aver paura di stare soli con sé stessi, a interrogarsi o semplicemente a prospettare situazioni assurde per qualche momento. Conoscere bene i propri punti di forza e le proprie debolezze permette di volgersi agli altri in modo completo e consapevole. Altrimenti, cercare compagnia ad ogni costo porta ad essere relegati al ruolo di gregario, quando si meriterebbe una parte attiva, e la forzata solitudine spinge ad essere autoreferenziali ed egoisti.
Sta già lavorando ad altri progetti?
Si, sto riordinando del materiale che è sulla mia scrivania da tempo, in attesa della sua occasione. Ne usciranno quasi certamente due libri per bambini e uno per adulti. Per il futuro, la Mondadori mi ha proposto un romanzo per giovani sui vent’anni. Vedremo se arriverà qualche imput.
Quale domanda le avrebbe fatto piacere che le ponessi e non le ho posto?
La domanda che inseguo è il rapporto che c’è fra lettura e scrittura, cioè se in sostanza un avido lettore può essere un buono scrittore. Sicuramente spesso è così, perché si è aiutati a rendere in parole determinati stati d’animo sulla falsa riga di altri che prima di te ci hanno provato, ma non sempre. Lo scrittore è prima di tutto mosso dall’ambizione di far provare al pubblico, con i suoi mezzi unici e irripetibili, le emozioni che lui stesso da lettore ha provato.
                                                                                                                               
                                                                                                       Giulia Ceccarelli

Il "sentimento del tempo"

 Pubblicato il 18/02/2010 su "La pagina della scuola"

Il "sentimento del tempo"

Che importanza riveste il tempo nella nostra vita quotidiana? Come testimonia la quantità di proverbi e modo di dire che lo riguardano, il tempo è quanto abbiamo di più prezioso, è l’unità di misura fondamentale dell’esistenza, è l’intervallo fra inizio e fine. Il problema della natura del tempo si pone continuamente alla nostra attenzione, perché a differenza delle altre creature, possediamo la percezione del suo passare. Anzi, diciamo che scorre, forse perché ce lo immaginiamo come un lungo nastro fotografico su cui sono impresse una serie di immagini in successione appartenenti al passato, mentre i fotogrammi vuoti costituiscono il futuro e la sequenza attualmente in fotoimpressione è il presente. Il passato non è più, il futuro non è ancora, il presente sfugge al nostro possesso. Certo, il tempo è una materia prima piena di paradossi e di misteri, tanto ingannevole da sottrarsi ad un’univoca definizione. Ma anche la nostra esperienza personale riguardo ad esso è un enigma: se viviamo un’esperienza affascinante, abbiamo l’impressione che il tempo voli; nel ricordo esso però si ridistende. Quando invece ci capita di aspettate e di soffrire, le ore paiono non passare mai; il tempo che ci era sembrato interminabile si è ristretto, perché non ha lasciato traccia.
I greci non avevano un solo temine per indicare il tempo: in particolare distinguevano fra il tempo della natura (tempo ciclico) e tempo dell’uomo (tempo scopico). Il tempo della natura è dato dal susseguirsi eterno e immutabile delle stagioni: nel ciclo continuo di nascita e morte si colloca anche l’uomo, che è inserito nella φυσις (natura) e dominato da essa in quanto fusione dei quattro elementi. In questa visione non è importante la specificità dell’individuo, ma la sopravvivenza della specie. La morte, come la nascita, è un evento naturale ed ineluttabile: il principio creatore che ha donato la percezione, la toglie per darla ad un altro essere.
Il tempo dell’uomo si inserisce nel tempo della natura: a differenza del tempo ciclico non è eterno, ma rappresentato dallo scarto medio - breve fra il proposito e la realizzazione dello scopo. Questo lasso temporale, benché non sia pieno dominio della τεκνη (tecnica), ma rimanga un margine di casualità data dagli interventi favorevoli o sfavorevoli degli dei, è quello contemplato dalla storia, una cronaca di eventi vissuti, visti o recentemente testimoniati. L’anziano, reso esperto da molti cicli stagionali, è per eccellenza il saggio, il custode della cultura del popolo.
Nella cultura giudaico-cristiana il tempo diventa lineare e nasce la concezione di passato, presente e futuro. In senso biblico, il passato è rappresentato dalla cacciata dal paradiso terrestre in conseguenza del peccato; il presente è dolore e sofferenza, necessari alla condizione umana per espiare la colpa originaria; il futuro è la vita eterna, la salvezza che spetta ai virtuosi, la redenzione ultraterrena dal dolore. La malattia e la morte sono i momenti di massima sofferenza che permettono di accedere alla felicità eterna.
L’odierna civiltà occidentale ha assimilato nella prospettiva escatologica giudaico-cristiana il tempo scopico greco. Essendo il passato immodificabile, l’uomo moderno vive nel presente e progetta l’immediato futuro, similmente all’uomo greco si affida alla tecnica per rendere attuabili i suoi piani. Ma al giorno d’oggi conoscenze e prodotti tecnologici si susseguono a ritmo frenetico, in costante accelerazione, spesso l’offerta precede la richiesta. Ne consegue che l’uomo contemporaneo, privato, nel relativismo assoluto, di veri “sapienti”, di modelli comportamentali in cui credere e affidarsi, da soggetto diventi oggetto della tecnica. Proiettato nel futuro, indifferente al passato, calato nell’immanente dover fare, perde il senso dell’”essere” nel presente, il gusto di concedersi quell’”otium” latino che è meditazione atemporale. La mercificazione della società capitalistica ha ridotto anche il tempo a merce di scambio e a valore economico: si acquista, si presta, si offre, si vende, si impiega, si consuma, si perde…”il tempo è denaro”.
Le diverse culture non hanno mai dato una definizione esauriente dell’essenza del tempo. Recentemente la fisica quantistica e la teoria relativista di Einstein ci dicono che la distinzione fra passato, presente e futuro è solo un’illusione; il tempo è una sovrastruttura della nostra mente che ci permette di suddividere con un’unità di misura fittizia il tempo limitato delle nostre esistenze.
La speranza: che sia concesso alla nostra effimera umanità di assaporare, come ci sussurra Muriel  Barbery ne “ L’eleganza del riccio” , la magica bellezza del “sempre nel mai”?                                                                              
                                                                                                          Giulia Ceccarelli

L’incontro-scontro tra etica e legge

 Pubblicato il 21/09/2011 su la "Terza pagina" de "La Voce di Romagna"

L’incontro-scontro tra etica e legge

Passato il 60esimo anniversario dalla nascita della nostra Costituzione, accompagnato dai dibattiti sulla riforma elettorale, e nell’anno dei festeggiamenti dei 150 anni di un’Italia che non riesce a rialzarsi tra una Manovra e l’altra, si pone al cittadino consapevole questo interrogativo: quali caratteristiche dovrebbe avere una legge per essere applicabile e condivisibile? Deve rientrare nell’”ordine naturale”, riferendosi a dei valori universali che trascendono contestualizzazioni spazio-temporali o è il risultato di una contrattazione relativistica? Di importanza cardine è trovare un accordo su che cosa si intenda per “ordine naturale”.
Alcuni lo intendono come quel principio di autoconservazione che la natura ha posto a tutela della specie umana, come a tutte le altre specie viventi. Per la sopravvivenza dell’individuo e della specie l’uomo è stato spinto ad aggregarsi in gruppi. Ben presto ogni comunità ha però dovuto stabilire delle regole di convivenza che salvaguardassero la collettività. Spesso anche il credo religioso ha influito nella scelta di questi principi, che acquisivano quindi un valore trascendente: i dieci comandamenti dati da Dio agli ebrei, furono anche le prime leggi di quel popolo. Da questa esigenza ancestrale sono nate nel tempo diverse culture, diversi modi di concepire il potere, diversi sistemi giuridici. Si riconoscono tuttavia alcuni principi comuni, indipendentemente dalla latitudine e dal periodo storico: non uccidere, non dichiarare il falso, non rubare. Da sempre la comunità punisce quei membri che compiono per proprio interesse un’azione lesiva per il gruppo. Quindi, è necessario che una legge, per essere buona, sia utile alla collettività e rispetti la persona umana. Il rispetto della persona umana nella società si è poi tradotto in tempi moderni nella dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, firmata nel 1948 alle Nazioni Unite, che ha messo su carta alcuni principi, figli dell’Illuminismo, comuni a tutti i paesi occidentali, per porre un limite al relativismo delle diverse Costituzioni degli Stati membri.
In altre civiltà, però, quelli che l’Occidente chiama “diritti inalienabili” non sempre vengono rispettati. Basti pensare alla condizione della donna nei paesi fondamentalisti islamici, alla piaga del lavoro minorile, alla pena di morte.
Serrano allora le loro fila i relativisti, che identificano  in antitesi l’”ordine naturale” come la legge del più forte sul più debole, ma riconoscendo che una legislazione non può fondarsi su di una prevaricazione, sostengono che le regole di convivenza devono essere dettate da una maggioranza, a cui spetta la scelta di alcuni principi piuttosto che altri. Il potere istituito deve, da parte sua, garantire il rispetto e l’applicazione delle suddette leggi. E’ comprensibile e legittimo, dunque ,che ci siano differenze anche molto ampie fra una forma istituzionale e legislativa e un’altra, perché queste sono il prodotto dell’ideologia della parte dominante in una determinata area geografica e in  un particolare periodo storico e uno specifico contesto culturale. Pur nel rispetto delle minoranze, è anche nello spirito della Democrazia accordare alla maggioranza popolare la scelta definitiva.
Ma siamo proprio sicuri che le norme decise da una maggioranza siano le più “giuste”? La massa è facilmente influenzabile e spesso mutevole nelle opinioni. Il problema è indubbiamente di attualità, considerando che nell’era della globalizzazione è facile e veloce emigrare da paese in paese, portando con se il proprio orizzonte di valori. Quello che è oggi il codice etico dominante domani potrebbe non esserlo più. Saremo dunque pronti ad una svolta in campo sociale, politico, istituzionale?
In epoca di relativismo imperante il dibattito non può che rimanere aperto, così come si è verificato nel dibattito fra compagni di classe. Il relativismo ci aiuta a riflettere, a confrontarci, ad accogliere le ragioni dell’altro e del diverso, nell’ottica di una pacifica convivenza che certi dogmatismi di verità assolute hanno da sempre minato, ma ci può far cadere vittima di sofistica persuasione retorica e soprattutto sospendere in un’esistenziale insicurezza, che, a parer nostro, contraddice l’innato desiderio umano di certezza e solidità non solo economica, ma anche ideologica e morale… nell’”ordine naturale” delle cose, immanente o trascendente, laico o fideistico.    
                                                                                                                               
                                                                                                           Giulia Ceccarelli

Combattiamo la mafia: diffondiamo la cultura della legalità

Pubblicato il 05/08/2010 in "Terza Pagina" su "La Voce di Romagna"

Combattiamo la mafia: diffondiamo la cultura della legalità

Noi italiani siamo noti nel mondo, oltre che per l'opera lirica e la cappella Sistina, la pizza e gli spaghetti, anche per aver esportato l'organizzazione criminale che maggiormente sa integrarsi in ogni contesto sociale: la mafia. Ma che cos'è la mafia?
La mafia è una forma di criminalità organizzata che esercita il controllo di alcune attività illecite. La sua arma principale è la violenza: la notevole presenza di sicari, le uccisioni programmate, le sparatorie in luoghi pubblici sono strumenti intimidatori che costringono le popolazioni locali al silenzio (famosa la frase delle finzioni cinematografiche: "Tu non hai visto niente”, accompagnata dalla pistola puntata). Le sue azioni criminose, prevalentemente svolte in clandestinità, presuppongono l’esistenza di uno Stato moderno, di un'economia libera e della possibilità di imporre la propria autorità anche sulle classi dirigenti.
La mafia, la cui etimologia deriva dall’arabo mahias “smargiasso” o dall’espressione maphi’ah “è cosa occulta”, è nata nel Mezzogiorno nelle sue tre più importanti forme (Cosa Nostra- Sicilia, 'Ndrangheta- Calabria, Camorra- Napoli) all'epoca dell'Unità d'Italia, per poi svilupparsi anche al centro- nord.
Com'è nata la mafia? Quali sono le sue principali attività? E' unita ad altre organizzazioni clandestine? La mafia è una forma di criminalità organizzata che presuppone l'esistenza. La sottovalutazione del fenomeno da parte dei governi della prima Unità ha garantito la creazione di organizzazioni sempre più ramificate che vogliono essere un'alternativa allo Stato, un parallelo "Stato nello Stato", con proprie leggi, un proprio codice d'onore, dei propri contatti, un’assemblea propria di capi, un proprio reddito. La mafia, quindi, è strettamente unita allo Stato e alla politica anche ai nostri giorni: i mafiosi fanno parte dei partiti, entrano nelle istituzioni, "intaccano" la finanza e l'economia; strategie, queste, che li rendono più influenti e meno vulnerabili alle azioni delle forze dell'ordine.
Non immaginatevi il mafioso come quello presentato ne "Il padrino" o " Era mio padre", con il completo gessato, la camicia nera, gli occhiali scuri, il sigaro in bocca e la rivoltella in tasca, magari sempre accompagnato dai suoi sgherri.
Il mafioso di oggi è una persona di successo, elegante, educata, istruita, molto spesso ha un'attività imprenditoriale a tutti gli effetti legale; ma il boss di Cosa Nostra, dispone degli affiliati e di collaboratori esterni per imporre tangenti agli imprenditori perché forniscano appalti, costringe al "pizzo" i commercianti, recluta dirigenti e collaboratori locali, gestisce il contrabbando, prima, il traffico di stupefacenti, poi; si assicura un massiccio apporto di liquidità, entra nella rete di altre "famiglie" criminali, e ad esse si appoggia per essere "coperto" dopo un "colpo grosso".
Cosa Nostra, a differenza della ‘Ndrangheta e della Camorra, che si avvalgono di una gestione autonoma, decentralizzata e fondata su legami di sangue, è un'organizzazione strettamente verticistica basata sulla “famiglia”, un piccolo gruppo di uomini d’onore che controlla un determinato territorio; il coordinamento provinciale e regionale è riservato ai vertici delle varie "famiglie". Nel contempo stringe rapporti con organizzazioni criminali straniere: la "mafia "russa, cinese, turca…
Ciò spiega come Cosa Nostra sia un'entità i cui lunghi tentacoli si infiltrino in ogni campo della società: in molte città del sud capita di incontrare un boss mafioso per strada, o di venire a sapere che il parente, il vicino di casa, l'ex compagno di scuola è entrato in malavita. E spiega anche perché sia tanto facile mozzare qualche estremità della Piovra e tanto difficile abbatterne la testa. Com'è possibile combatterla? Negli  anni ottanta la giustizia ha estirpato l'attività delittuosa delle Brigate Rosse, che agivano in modo quasi analogo, ma erano maggiormente svincolate, in quanto anarchiche, dalla politica e dalla società. Per combattere la mafia in tutte le sue forme si stanno facendo passi avanti, ma ci vorrà impegno quattro volte maggiore. Anche perché Cosa Nostra sa come comportarsi con i mass- media, come dare un'immagine di sé, come modellare la tradizione alle mutevoli esigenze dei tempi.
Nella nostra letteratura e nella nostra produzione cinematografica la mafia, qualcosa di clandestino e misterioso, ha sempre avuto il "fascino del proibito". A partire dal rapporto del mafioso con la religione. Nonostante abbia per le mani denaro sporco, e se possibile una coscienza ancora più sporca, il Don è religioso. D'altra parte la religione è da sempre la componente peculiare dell'uomo del Sud. Il giuramento di un picciotto consiste, fra gli altri riti, nel pungersi un dito e far cadere il proprio sangue su un crocifisso, un'immagine della Madonna o un santino, che viene poi bruciato, ad indicare la protezione del santo in questione sull'attività criminosa, nonché l'impossibilità di ritornare indietro, il dovere cioè di servire la cosca mafiosa fino alla morte. Anche il superlatitante Bernardo Provenzano alla cattura teneva in mano una bibbia sottolineata, e ne possedeva altre quattro intonse. Ma quello che ha maggiormente colpisce è il fatto che Provenzano sia stato trovato, dopo ben 43 anni, in un paese vicino a casa, a vivere di formaggio e lattuga, con una certa spensierata semplicità, senza aver più niente da perdere.
La mafia quindi è un atteggiamento mentale, quello di affidarsi non a chi è onesto, ma a chi dà più sicurezza, quello di essere presente o addirittura vittima di un'illegalità e non dirlo, di non fidarsi di quell'entità, vista spesso lontana e nullafacente, chiamata Stato.
Proprio perché la maggiore pericolosità della mafia risiede nel fatto di essere un atteggiamento mentale, è indispensabile, come sosteneva Falcone, una costante attenzione dello Stato nei confronti di questa secolare realtà; sottovalutazione che ne ha permesso la prosperità.
La scuola, le associazioni, le iniziative mirate, possono educare le giovani generazioni alla consapevolezza della sua esistenza e a formare il senso dello Stato e della sovranità della legge, il valore morale della legalità. Diceva il famoso filosofo greco Socrate:̉ " (Nella città anche i più forti devono essere sottomessi alle leggi)
Conoscendo il problema della mafia, sono quindi soprattutto i giovani che conservano degli ideali, che vogliono fare qualcosa per migliorare il mondo al di là  del comune buon senso degli adulti, a battersi contro la mafia, a venire, tutti uniti, allo scoperto.
Ci possono fare da esempio i ragazzi di Locri, che, all'indomani dell'omicidio del loro consigliere regionale da parte di sicari mafiosi, hanno sfilato con lo slogan: "Adesso uccideteci tutti". Hanno capito che la violenza di Cosa Nostra può uccidere singoli individui se essi operano in solitudine, come spesso è tristemente accaduto, ma se tutta la collettività le si muove contro, può perdere alleati preziosi per la sua stessa esistenza.

                                                                                                                     Giulia Ceccarelli
                                                                                                         

Il mare degli antichi, il mare dei moderni

 Questo è uscito in "Terza pagina", su "La Voce di Romagna" il 27/06/2009

Il mare degli antichi, il mare dei moderni

Mare: non c’è parola più usata nel vocabolario del riminese. Non solo perché è stato la fortuna del turismo degli ultimi cinquant’anni, ma perché Rimini è il prodotto ricco e strano di un continuo moto ondoso di storie e di persone, iniziato più di duemila anni fa, perché Arimunum, presso il fiume Rubicone, confine fra l’Italia e la Gallia Cisalpina, era un importante nodo stradale (vi si congiungono la via Emilia e la via Flaminia) e commerciale (ia deil porto alla foce del fiume Marecchia). Rimini, città anfibia che ha ricevuto per venti secoli spinte uguali e contrarie verso la terra e verso il mare, come altre città del Mediterraneo è, per questa sua virtù, mille volte data per morta e mille volte risorta dalle sue ceneri. O meglio, ricostruita sopra ai multiformi ruderi precedenti, per la gioia degli archeologi: se sposti un sasso in piazza Ferrari ti ritrovi una cripta gotica ricavata da un edificio romano eretto su una necropoli celtica, costruita sopra una fornace etrusca sotto cui probabilmente c’è un frammento dell’arca di Noè. Rimini è ora orgoglioso simbolo di un mare che unisce, di un mare che porta ricchezza. Ma non è stato sempre così.
I Pelasgi, primo popolo indoeuropeo a stanziarsi nell’entroterra greco, erano prevalentemente agricoltori e allevatori, e le loro società erano a struttura matriarcale. Non abbiano testimonianze di navigazione; per quanto ne sappiamo il mare era visto come qualcosa di misterioso, di terribile, di ignoto, un confine invalicabile. Il viaggio degli Argonauti, appartenente al patrimonio mitico miceneo, è il simbolo della prima esperienza di navigazione nel mondo greco. Essa si fa paradigma di un cambio di mentalità: ora è l’uomo, che ha superato la sua prova di iniziazione, che è riuscito a dominare l’irrazionalità del mare e ne ha compreso le potenzialità e le risorse, il punto di riferimento per la famiglia e per la società, è l’uomo, che riunendo in sé la figura del mercante e del guerriero, acquista quel ruolo educativo che era stato della donna. Il mare è visto come Caos liquido, come un Oceano che circonda terre emerse di cui ancora non si stima bene l’estensione: è adatto agli avventurieri, agli audaci, agli uomini; il mare è una realtà da subito negata alle donne, legate indissolubilmente all’accogliente staticità della terra. Ecco perché le donne degli Inni e dei poemi omerici sono sempre sole, su di un’isola, dove le coordinate spazio-temporali sembrano restringersi: Arianna abbandonata da Teseo, Fedra abbandonata da Ippolito, Calipso e Circe, immortali che vivono su terre sempre rigogliose dove non esistono le stagioni. Ulisse di ritorno ad Itaca trova, ad eccezione dei Proci, ogni cosa come l’aveva lasciata: Peneope moglie fedele, il padre e il Porcaro Eumeo ancora vivi e pronti a servirlo, il cane Argo che, mettendo fine alla sua lunghissima vita, non appena vede il padrone, pare cristallizzato nel suo ciclo vitale per tutti i vent’anni di assenza. Tutte le donne guardano verso il mare, pronte a festeggiare l’arrivo, o il ritorno, dell’amato. E quando non riescono più ad aspettare, allora muoiono gettandosi fra le onde, comprenetrandosi con il simbolo della disparità fra i due sessi, e coronandolo ad emblema della lontananza e della caducità della vita.
Il mare per i Greci è al contempo πελαγος e ποντος, estensione e profondità. Ciò doveva essere ben noto ad Omero, che nasconde negli abissi non poche creature fantastiche e mostruose, che Ulisse è spinto ad affrontare dalla “curiositas”, dalla sete di conoscenza. Il mare è l’elemento che meglio si conforma al carattere di Ulisse: come egli è l’uomo dal multiforme ingegno, così il mare è mutevole, insidioso, a tratti violento. Nella sua volontà di andare al di là del mare, al di là del limite umano, Ulisse vuole domare quel senso di precarietà che sente di condividere con il mare.
Nel V secolo mare diventa sinonimo di colonie, di potere; anche se il timore verso di esso sopravvive, diventa condizione essenziale allo sviluppo, alla sicurezza e alla difesa della polis. A questo proposito ricordo l’episodio secondo cui Pericle ebbe dall’oracolo il consiglio di erigere nuove mura per salvare Atene da un assedio, e la salvezza della città fu garantita con… un ponte di barche!
La navigazione era alle origini invisa anche all’aristocrazia romana più conservatrice (lo stesso Virgilio si rifà a quella mentalità scrivendo che Enea si mette per mare spinto solamente dal senso del dovere, e con la sacralità di un ecista). Dopo la seconda guerra punica finalmente il Mediterraneo diventa “mare nostrum”, e lo stesso significato del termine ποντος viene assimilato nel latino pons e nell’italiano ponte, poiché il mare inizia ad essere concepito come stabile collegamento tra la madrepatria e le province: un mare che non divide, ma unisce.
L’ostilità dell’uomo per il mare è dipesa soprattutto dall’elevato rischio, dato dall’impossibilità di organizzarci una serie di vie sicure, simili a quelle esistenti sulla terra ferma. Ora la tecnica ha fatto sì, come direbbe Erodoto, che anche il mare diventasse terra, con una serie di rotte codificate. Il mare ora collega semplicemente un posto all’altro, una cultura all’altra, un continente all’altro.
La vera sfida dell’uomo moderno non è più il mare: è semmai il cielo, che ha preso il posto che fu del mare nell’immaginario collettivo; di esso sappiamo ancora poco, vi ci siamo affacciati, navigando, per così dire, sottocosta.
Ma il mare continua a modellare senza sosta il cuore e la mente di coloro che vivono sulle sue sponde, lasciandosi dietro detriti variegati di inebrianti immensità e di insidiosi limiti: pagine di letteratura, modi di dire, racconti, specialità gastronomiche. Anche i riminesi, più che un popolo marinaro, sono un popolo-mare, attraente, mutevole e poco coeso, più caldo in superficie che sul fondo, che non sai mai se ti accoglie o se ti sfugge.
                                                                                                                         Giulia Ceccarelli
  

PREPOTENZE: COME REAGIAMO? UN PROBLEMA DI COMUNICAZIONE E RELAZIONE


 Pubblicato il 02/03/2009

PREPOTENZE: COME REAGIAMO?
UN  PROBLEMA   DI   COMUNICAZIONE   E   RELAZIONE

“ Se oggi in Italia non esiste più autorità, esiste uno sterminato potere” così esordiva Pietro Citati in un articolo di Repubblica del gennaio scorso. Si è andata perdendo l’autorevolezza che non è affatto eccesso di potere, ma autorità condivisa, credibile, rispettabile. Le regole, i limiti, le costrizioni, si sa, non piacciono, ancor meno a noi adolescenti L’adolescenza è l’età del cambiamento: un momento di crescita in consapevolezza e autonomia. Ma anche un’età di sregolatezze e di ammiccanti trasgressioni, di voglia di provare di tutto, di un nuovo, più o meno nascosto, sentimento di onnipotenza, portatore di una concezione della vita non come un compito da assolvere, ma come una festa da inventare. Il permissivismo delle famiglie e la frustrazione degli educatori tradizionali, non più autoritari, ma non sempre autorevoli, possono aver prodotto l’illusione di un potere illimitato nelle relazioni interpersonali. Si potrebbero così spiegare le prepotenze fra giovanissimi, le intemperanze irrispettose nei confronti degli adulti, gli episodi di bullismo, gli atti di vandalismo, le violenze negli stadi?
Un’amica psicologa mi ha aiutato a somministrare nella mia classe, seconda superiore 24 studenti, un questionario sui rapporti con i propri compagni di classe, con i genitori, con gli insegnanti, in particolare sulle prepotenze subite, inflitte, testimoniate, e sulla loro percezione di giustizia nei comportamenti relazionali fra coetanei. La rilevazione dei risultati dell’indagine, se pur in piccolo campione, mi ha offerto interessanti spunti di riflessione.
Sia maschi che femmine dichiarano di avere un buon rapporto con i compagni di classe; per le femmine appare più critico il rapporto con gli altri ragazzi dell’istituto, forse perché i legami sono più deboli e ognuna tende a ricercare  nella propria classe anche il proprio gruppo di amici. Le femmine definiscono il rapporto fra loro sereno, sincero, aperto e amichevole, dimostrano una maggiore affinità ed intesa con lo stesso sesso rispetto ai maschi, con i quali le relazioni non sono problematiche, ma percepite come distanti. I maschi non presentano sostanziali differenze nel valutare i rapporti fra esponenti del proprio e dell’altro sesso, sentendo all’occorrenza più comprensiva e più vicina la compagnia femminile. Situazione fortunatamente positiva anche per quanto riguarda le possibili prepotenze subite: le femmine accusano talvolta dispetti e sottrazione di beni, dimostrandosi in materia molto più attente e sensibili dei loro compagni, che si sentono in prevalenza oggetto di falsi giudizi e di dileggi. Tutti dicono di non aver recentemente ricevuto percosse o insulti. Le femmine si mostrano precise anche nell’individuazione degli autori delle prepotenze, spesso singole persone, o al massimo un gruppo di 2 o 3, in prevalenza maschi, mentre dall’altra metà del cielo si tende a denunciare il fatto in sé, senza renderne responsabile qualcuno in particolare. I luoghi privilegiati, prevedibili, per gli atti di prepotenza sono la classe durante il cambio dell’ora e il corridoio durante l’intervallo. Di solito per chi assiste ad un atto di prepotenza le femmine sembrano individuare maggiormente il gruppo di coloro che difendono il malcapitato e spesso dichiarano di intervenire in prima persona in favore del più debole o di rimproverare il prepotente di turno, mentre i ragazzi notano di più il gruppo che resta indifferente o si diverte, non sempre intervengono, per vari motivi, non ultimo “perché tutti devono imparare a difendersi da soli”. C’è comunque anche chi assiste e se la ride, appoggiando il più forte: questa categoria è percentualmente maggiore nei maschi che non nelle femmine. Per quanto riguarda le violenze inferte ai coetanei, le armi maggiormente usate sembrano essere, per entrambi i sessi, l’esclusione e i dispetti, ritenute più efficaci e dolorose di violenze fisiche e sottrazione di beni, che sono quindi irrilevanti. Questo lascia ben sperare per una battuta d’arresto del machismo!
Le novità arrivano per il sentimento di giustizia. E’ giusto non è giusto? Qui i “non so” sono frequenti, senza scarti apprezzabili fra maschi e femmine, indice di una certa insicurezza nel separare il giusto dall’ingiusto. Nonostante ciò sono le femmine a distinguersi per senso della giustizia: secondo loro è giusto parlare in famiglia o con gli insegnanti delle eventuali offese a cui si assiste, aiutare un amico succube di una prepotenza; sbagliato picchiare e insultare in ogni caso. I maschi, per natura e per età dotati di una maggiore carica aggressiva e di un concetto di giustizia che appare più affidato alla reazione personale, piuttosto che alla fiducia nelle autorità istituite, sostengono invece l’importanza e quasi l’inevitabilità di vendicarsi, di picchiare per una “buona causa”, come un’offesa alla famiglia e all’amico, un’umiliazione inflitta dal potente al debole, un insulto personale, trascurando quindi che anche questa modesta forma di vendetta privata non è in ogni modo conforme ad una consapevole convivenza civile. Sbagliato l’uso della forza ai danni dei più piccoli, però anche l’intervento fra due che hanno deciso di fare a cazzottate per regolare qualche conto in sospeso. Vedo in quest’ultima risposta, e anche in un’infinità di giochi maschili, quell’inconscia esigenza animalesca di misurare (e quindi ostentare) la propria forza e la propria agilità con un pari, segnare un territorio, decretare un possesso, stabilendo una sorta di misteriosa gerarchia.
I rapporti con i genitori, limitatamente alla nostra classe (penso che con un campione più ampio il risultato sarebbe stato differente) sembrano buoni; le femmine preferiscono confidarsi con la madre, i maschi con il padre. Importanti per tutti anche le figure degli amici e dei compagni di classe, tradizionali custodi di segreti e bravi elargitori di consigli, assolutamente snobbati allenatori, preti e animatori. Pessimi confidenti anche i professori, autentico fanalino di coda, con i quali i rapporti non sono certo sempre idilliaci e comunque legati al rendimento scolastico. Ultima curiosità: mentre la componente femminile considera necessario confidarsi con qualcuno, una parte cospicua di quella maschile preferisce talvolta non confidarsi, nascondendo forse paura del giudizio e della derisione dei coetanei, e cercare da solo un’adeguata risoluzione ai propri problemi, atteggiamento decisamente più “razionale”, rispetto a quello  prevalentemente“emotivo”  femminile.
Anche se dal punto di vista statistico, gli esiti del sondaggio rispecchiano un campione assai limitato quindi non attendibile sul piano scientifico, rimane il fatto che ragazzi e ragazze hanno apprezzato il tema dell’indagine, si sono interessati ai quesiti e soffermati a riflettere sul rispetto della persona e sul senso del limite…forse un piccolo successo verso un’autorevolezza che guida, piuttosto che un potere che inconsapevolmente schiaccia.
                                                                                                               Giulia Ceccarelli

Quale futuro per le nuove generazioni?


 E' stato pubblicato il 16/12/2008 su "La pagina della Scuola", ma sembra scritto ieri...

Quale futuro per le nuove generazioni?

Dopo l’indignazione di tanti studenti suscitata dalla riforma Gelmini, le rimostranze per la scarsità dei nuovi impieghi e le comprovate difficoltà dei tanti precari nel trovare una propria stabile collocazione nel mondo del lavoro, viene spontaneo interrogarsi su come i giovani percepiscano il loro futuro. La risposta, seppur parziale,  è arrivata da un questionario rivolto agli alunni di un triennio del liceo Giulio Cesare della città. I quesiti interrogavano i 63 ragazzi del campione fra i16 e 18 anni sulla validità della scuola nel preparare alla vita, sulla percezione del loro futuro, sulla scelta dell’indirizzo di studi universitari, sulla propria scala di valori e sul progetto di vita.
Nonostante la scuola italiana sia stata da più parti definita scadente, la maggioranza dei 16-18 enni confida nella sua capacità di fornire ancora una solida preparazione per riuscire ad affrontare al meglio la sfida del primo impiego e veder realizzate le proprie aspirazioni, tanto da valutare positivamente sia l’esperienza scolastica presente che pregressa. Meno della metà dei ragazzi, però, ritiene di poter realisticamente ambire ad una condizione socio-economica migliore di quella dei genitori; i“non so”prevalgono, probabilmente l’incertezza è attribuibile all’attuale difficile situazione economica mondiale e alle previsioni non certo rassicuranti, non solo di economisti, ma anche di scienziati sul futuro del nostro pianeta.
Dimostrando un senso di responsabilità, la quasi totalità degli interpellati crede che la costruzione del proprio futuro dipenda dall’impegno e dalla determinazione personale.
Più del 90% prevede nei prossimi anni la frequenza all’università, per un corso triennale o quinquennale, il dato non stupisce considerando il campione dei liceali; i più ambiziosi sperano in masters all’estero e dottorati di ricerca. Riguardo alla scelta dell’indirizzo, gli studenti dei primi due anni di triennio si dicono ancora piuttosto indecisi, mentre tra i maturandi si conferma la tendenza, anche se meno netta che in passato, a diversificare gli interessi per  sesso: le ragazze preferiscono le materie umanistiche, i ragazzi quelle scientifiche.
Una minoranza, comunque, confida di trovare subito un lavoro di suo gradimento, conforme agi studi: la maggioranza, confessandosi seriamente preoccupata della crescente difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro, è pronta (o precocemente rassegnata) ad accettare qualsiasi mansione, pur di lavorare. A sorpresa, infatti l’autonomia sembra per i giovani uno dei primi obiettivi da conseguire: una desiderio d’indipendenza che si concretizza con la volontà di formarsi una propria famiglia o di trasferirsi all’estero in cerca di migliori opportunità e nuove esperienze. Un’altra tendenza da segnalare è la mancanza di condizionamenti: i giovani vogliono essere soli davanti alle scelte per il loro futuro, sembrano essere insofferenti ai modelli imposti dalla società e pretendono di essere ascoltati dalla famiglia, sottraendosi a programmi precostruiti, forse conditi da un certo opportunismo. Come prova che è forte la volontà di costruirsi da sé gli ideali in cui credere, un numero non trascurabile di giovani ha espresso entusiasmo verso attività ed esperienze non proprio ordinarie, come la partecipazione ad una missione umanitaria e la disponibilità di cooperazione nel sociale e, per la gioia dei tradizionalisti, la possibilità di un arruolamento volontario nell’esercito, visto come un’opportunità per cercare di risolvere le tante contraddizioni che esistono al di sotto del velo di una pace apparente. Mentre alcuni prospettano una diretta partecipazione nella politica, una ristretta minoranza degli intervistati, a dispetto di quanti considerino le nuove generazioni acefale “ dalla vita bassa”, esprime interesse per il mondo della moda, dello spettacolo, dei reality, neppure per quello dello sport: i promettenti  calciatori e le aspiranti veline non rientrano evidentemente nel campione esaminato!
A preoccupare i ragazzi è principalmente la difficoltà a trovare un lavoro gratificante; nella scelta del lavoro è proprio la soddisfazione personale l’aspetto che prioritariamente apprezzato, largamente distaccati la carriera di successo e l’alta retribuzione.  Seguono nell’ordine la violenza in tutte le sue forme e la solitudine; la violenza in particolare quella finalizzata ad un presunto quanto effimero divertimento (condanna per gli episodi di bullismo e di angherie sulle minoranze). La recessione economica, la criminalità, gli squilibri ecologici  e anche lo stesso studio sono motivo di minor inquietudine. Lo sballo a tutti i costi e privo di ogni senso di responsabilità è considerato “triste e degradante, sintomo di un profondo egoismo e di alienazione” e ad esso si risponde contrapponendo i saldi valori della famiglia, dell’amicizia, dell’amore e, inaspettatamente, della fede religiosa, cui è riconosciuto il merito di fornire delle certezze nell’imperante relativismo. Ideali come la libertà, la democrazia e la pace sono stati trascurati a favore di valori prossimi ai propri progetti di  vita.
Emerge dall’esito del sondaggio, pur nell’esiguità del campione considerato, una gioventù  stanca di essere prosaicamente etichettata come “bruciata” ed è evidente dalle risposte una volontà di riscatto nel confidare in affidabili principi. Forse saremo da prendere d’esempio per la nostra determinazione e scalzeremo quel pregiudizio  che ci etichetta come “devianti”o”bamboccioni” e ci chiude le porte senza nemmeno sforzarsi di ascoltarci e comprenderci. Come diceva l’oratore Isocrate, “poiché non dall’età, ma dall’inclinazione naturale e dall’esercizio dipende la saggezza, è giusto che si raccolga da ogni età la proposta migliore, per un vantaggio comune”. 
Giulia Ceccarelli

Il distacco in letteratura: senso di perdita e straniamento

 Pubblicato il 29/09/2009 su "La pagina della scuola"

Il distacco in letteratura: senso di perdita e straniamento

Il “distacco” è una componente fondamentale del nostro sviluppo, è il germe della crescita individuale. Perché la vita stessa procede a colpi di distacco. Il primo, traumatico, distacco è quello dal grembo materno, che viene indicato come nascita. Ed è sicuramente il più importante, che già cela in sé il destino dell’uomo: quello di essere individuo, di pensare con la propria testa, di evitare condizionamenti, di riuscire ad essere autosufficienti, senza bisogno di alcun appoggio esterno. Anche se questa è la vocazione dell’uomo espressa dal felice evento di una nascita, a questo risultato non si arriverà che fino diciotto, vent’anni più tardi.
Alla nascita segue infatti il periodo di transizione dell’infanzia, in cui ci si confronta con i modelli che ci offrono parenti, genitori, fratelli. La culla del bambino è la famiglia, o meglio l’idea creativa che lo stesso si fa di essa: non conoscendo il mondo esterno, si aia a scoprire il piccolo microcosmo che la casa gli offre.
Nelle poesie di Pascoli si può trovare il desiderio del poeta di ritornare fanciullo, di ricomporre i nido familiare, l’unico del quale si può fidare, l’unico che gli può offrire aiuto. Questo richiamare il bambino inesperto e insicuro che c’è in lui, questa sindrome del “Peter Pan”, gli fa rievocare i suoi affetti, morti o lontani, in immagini di grande dolcezza.
Con l’adolescenza subentra un nuovo distacco: quello che spinge il ragazzo ad interrogarsi sul mondo, quello esterno, quello vero, che si appresta a conoscere, a sentire il bisogno di un senso della vita, ad avere  la necessità di allontanarsi progressivamente dalla famiglia per crearsi un suo nuovo spazio fra i coetanei, nella società. In linea diretta l’adolescente diventa adulto, ma il senso del distacco non termina, quasi come se l’esistenza stessa volesse allenarci a quell’ultimo e definitivo distacco da noi stessi che è la morte.
Pirandello, ne “Il Fu Mattia Pascal”, offre uno spunto di riflessione proprio sul senso della morte, quasi facendone una parodia: il protagonista, avendo scoperto che nel suo paesino l’hanno trovato morto, decide di cambiare vita, di plasmare una nuova maschera che gli permetta di dimenticare i fastidi della sua ita precedente. Ma la nuova identità che si è scelto è destinata a fallire perché falsa, inconsistente, limitante.
Quando prova a riprendere le vesti di Mattia Pascal, si scontra con l’amara realtà di essere considerato morto da coloro che conosceva  e amava. Alla fin quindi egli perde la sua identità e vive nella sola convinzione di essere stato qualcuno, tanto tempo fa.
A queste divisioni, separazioni, che segnano obbligatoriamente la nostra vita, ne potrebbero subentrare altre, causate dalle nostre esigenze e dai nostri desideri. L’immigrato, ad esempio, che è chiamato ad allontanarsi dalla sua terra, subisce anch’egli un distacco: distacco dalle sue origini, dalla sua cultura, che lo porta a vedere spesso la nova realtà come diversa, spietata, ostile. Ma anche colui che per scelta o per caso si trova a doversi confrontare con altre culture attua un cambiamento di punto di vista che provoca una linea di frattura tra la realtà come l’ ha sempre creduta e la realtà come la vedono gli altri.
Il distacco, per un essere in divenire come l’uomo, può essere un buon strumento di analisi ( o meglio psicoanalisi): lo straniamento dai nostri sentimenti, dalle nostre emozioni può aiutarci a capire i nostri bisogni, a trovare noi stessi. Proprio con questo metodo Italo Svevo, ne “La coscienza di Zeno”, attraverso la forma  del diario porta in Italia il pensiero Freudiano e inserisce nella narrazione in parte autobiografica anche le tematiche dell’inettitudine alla vita, dell’impossibilità di cambiamento,dell’avverso destino.
“Diventa ciò che sei” diceva Nietzsche. Così come le nostre esigenze cambiano, dobbiamo abbandonare le vecchie convinzioni quando non ci appartengono più.
A tutta questa catena infinita di distacchi, di disillusioni, di attaccamenti e abbandoni, si contrappone solo un sentimento di unione: l’Amore. L’amore, specialmente quello fisico, può essere considerato come un inconscio desiderio di ricomporre quel corpo a corpo, quell’intimità, quella voglia di compenetrazione, che avevamo da feti nel corpo di nostra madre. Una condizione che ci fa sentire protetti e sicuri. Solo con l’amore l’uomo si può sentire completo come prima della nascita, perché è esso stesso, come dice Platone, una “parte” che necessita di completamento per rievocare alla memoria quell’antica beatitudine che non ritorna. Ma anche questa passione è concessa solo per pochi istanti, il necessario a colmare la sostanziale solitudine, a sfiorare quel “senso del limite” che è connaturato all’individualità stessa, e che Freud chiama “sentimento oceanico”.
La complessità e la duttilità dell’uomo in fondo è tutta qui, nel distacco. L’affermazione dell’individuo e la conseguente conoscenza di noi stessi, nata da un primo distacco e fonte di ulteriori separazioni e divisioni, è la naturale essenza della nostra esistenza, e quindi l’unico degno scopo della nostra vita.
                                                                                                                      Giulia Ceccarelli

“L’amor che muove il sole e l’altre stelle”


Democrazia, civiltà e barbarie


Pubblicato il 15/05/2008 su "La pagina della Scuola"...vale ieri come oggi

Democrazia, civiltà e barbarie

 Nelle Iστοριαι, Erodoto scrive: "le strutture cittadine  democratiche, nelle quali la libera discussione e lo scontro politico sono il frutto di un potere condiviso sulla base di leggi comuni, sono superiori agli stati dispotici dei barbari, nei quali le sorti di tutti sono affidate alla volontà di un unico regnante”.
Mi sorge spontanea una domanda. Ma chi è il "barbaro"? Il termine barbaro, usato fin dall'età antica, non aveva inizialmente un'accezione negativa. Il "barbaro" ero lo straniero che apparteneva ed una cultura diversa rispetto a quella dominante, era colui che faceva "bar-bar", cioè balbettava parole incomprensibili. A partire dalla battaglia di Maratona, si definirono barbari gli appartenenti al mondo persiano, che i greci reputavano incivile perché non aveva un'istituzione statale democratica, sostanziata di sovranità popolare, ma fondata sulla monarchia assoluta, ovvero la concentrazione di tutti i poteri nelle mani di un solo uomo, che poteva prendere qualsiasi decisione riguardo lo stato, e i sudditi, nella condizione di "sottomessi", gli dovevano solo ubbidienza. Nella Ecclesia, ogni cittadino ateniese aveva invece pieni diritti decisionali, era completamente libero, non oppresso dai potenti, poteva ambire ad ogni carica pubblica anche se apparteneva ai ceti più bassi. Il riconoscersi in ideali comuni fu sicuramente un elemento importante di coesione delle varie città- stato greche, spesso in rivalità fra loro, contro la "tirannide" rappresentata dal Gran Re. Vanno anche considerati altri fattori: i Greci combattevano in difesa della propria patria, della propria cittadinanza, combattevano per salvare se stessi, le loro famiglie, i loro averi, la loro cultura e i loro ideali, nella propria terra. I Persiani, invece, combattevano in terra straniera, per perseguire una politica di espansione territoriale che poco interessava ai sudditi guerrieri del Gran Re, costretti a combattere con la forza e per paura della collera del sovrano. Ricorrendo quindi alle proprie energie interne e al proprio patrimonio spirituale, i Greci riuscirono ad avere la meglio su un esercito numericamente molto superiore al loro.
Ma è sempre vero che il sistema democratico, la più evoluta forma di governo, a parer nostro, nel progresso civile di un popolo, vince sempre su quello monarchico?
Già nel dibattito fra intellettuali persiani sulla migliore forma di governo, Dario argomentava con lucida razionalità come la libertà derivasse dal prevalere di un "ottimo" solo sulla rissosità e sulle discordie di oligarchia e democrazia.
E' sempre accaduto nel corso della storia che la "civiltà" abbia sconfitto la barbarie?
I Germani, popoli sicuramente meno "civili" riuscirono a sconfiggere e a penetrare nell'Impero Romano, perché il miglior uso del cavallo garantiva una posizione privilegiata rispetto alla fanteria nella tattica militare. In più i "barbari", nella loro rustica arretratezza, rappresentarono una forza di rottura e di rinnovamento in una entità statale, sì civile e gloriosa, ma ormai al collasso. Si originò così quel processo di integrazione interculturale che delineò le moderne nazioni europee.
I primi colonizzatori del Nuovo Mondo, con un manipolo di avventurieri, riuscirono a conquistare in pochissimo tempo, a causa della superiorità tecnica data loro dalle armi da fuoco, i vasti imperi degli indigeni amerindi e distruggere quella che ora noi consideriamo la loro civiltà, ma che al tempo, con presunzione eurocentrica, veniva valutata come esempio di inciviltà sino a perseguire come valore il suo annientamento.
In tempi più recenti, il nazismo fu sconfitto dall'uso della bomba atomica, ma soprattutto dalla superiorità della "ragione", del valore dei diritti umani delle democrazie occidentali, sulla "follia" della tirannide e sulla violazione della persona.
Altre vittorie le libertà democratiche annoverano su vecchi e nuovi totalitarismi.
E' di scottante attualità il contrasto tra mondo occidentale "democratico, laico e tollerante", e mondo islamico "integralista ed autoritario", che sta riassumendo la fisionomia di un conflitto di civiltà, peraltro testimoniato dalle storiche contese che hanno diviso ed opposto le due rive del Mediterraneo fin dalla predicazione di Maometto.
La democrazia si può esportare o addirittura imporre nella solida convinzione che si tratti della miglior forma possibile di governo? O piuttosto può essere un lento e graduale processo di crescita di un popolo nella consapevolezza del diritto?
Potrei concludere la mia riflessione considerando che un conflitto bellico è vinto, a breve termine, per abilità strategica e superiorità tecnologica, ma che la storia sembra far prevalere, in tempi lunghi, i valori culturali e morali condivisi, al di là delle differenze, considerati i fondamenti di ogni  civiltà. 
Giulia Ceccarelli

Riforma Gelmini: ritorno al passato o sguardo al futuro per la scuola italiana?

 Pubblicato il 03/11/2008 su "La Voce di Romagna", ne "La pagina della Scuola"

Riforma Gelmini: ritorno al passato o sguardo al futuro per la scuola italiana?

Queste ultime settimane sono state davvero turbolente per la scuola italiana: gli scioperi, le manifestazioni e i cortei contro il decreto Gelmini hanno prepotentemente raggiunto gli onori della cronaca nelle maggiori città e ad oggi è impossibile quantificare l’ondata del malcontento tra liceali, universitari, ricercatori e precari.
Ma cosa sta realmente accadendo? Contro che cosa si protesta? Per capirlo meglio, la nostra scuola ha chiesto una mattina per discutere il problema e informare adeguatamente su dati oggettivi, piuttosto che per riduttivo e parziale sentito dire, con un collettivo straordinario e del tutto legale, previa autorizzazione della Preside. Si, perché molti di coloro che si battono per l’occupazione a tutti i costi spesso non si rendono nemmeno conto di ostacolare il diritto allo studio, e conseguentemente che i dirigenti non possono che rispondere sollecitando interventi in difesa della legalità.
Il dibattito è stato organizzato al meglio, con una dozzina di relatori di ogni profilo ideologico e politico, scelti fra gli studenti delle classi più alte, che hanno dato prova di padronanza della materia, sollecitando alla formulazione di proposte concrete. I decreti 133 e 137, definiti con approssimazione e inadeguatezza “riforma della scuola Gelmini” in realtà sono una corollario della Finanziaria del ministro Tremonti, già approvata ad agosto e non si propongono e non si definiscono per valenza pedagogica e normativa come una riforma dell’ordinamento scolastico nei diversi livelli di formazione. Preso atto della recessione economica che sta invadendo l’Occidente  e della necessità di immettere liquidità in breve tempo nelle casse dello Stato, il Ministro ha deciso di prelevare nei prossimi anni percentuali sempre crescenti dei fondi stanziati per la scuola, l’università e la ricerca. Ma nessuno si è sognato di protestare, a tempo debito, per la finanziaria. Oggi si protesta invece per la sua diretta conseguenza, cioè soprattutto per il famoso art. 8 del decreto Gelmini che recita: “I sopraddetti provvedimenti (art.1-7) non devono pesare sul bilancio dello Stato”.
I nostalgici grembiulini di “piccolo mondo antico”, il severo e minaccioso 5 in condotta per contrastare il bullismo mediatico, l’insegnate unico deamicisiano, la chiusura delle piccole scuole di montagna o campagna con meno di 50 alunni non sono solo un ritorno alla tradizione, ma un tentativo di gestire i pochi denari che restano. Obiettivo raggiunto, per mezzo della riduzione del tempo pieno, delle ore scolastiche, specialmente negli istituti tecnici e professionali, di tagli al personale a tempo determinato (come moltissimi ricercatori, col rischio di bloccare i progetti già in atto e dequalificare un settore già debole a livello internazionale).
A sorpresa uno dei punti su cui si è più discusso è stato il ritorno al voto in decimi alla scuola primaria e secondaria di primo grado. Molti hanno considerato come sia la scuola media il nodo debole del sistema, a differenza di un scuola elementare di qualità e in alcuni casi di eccellenza, perché non garantisce spesso un’adeguata formazione agli studenti, che trovano poi maggiori difficoltà con i programmi d’istruzione superiore. Con la nuova riforma, che non prevede esami di riparazione, chi ha un 5 anche in una sola materia dovrebbe essere bocciato, ma è evidente che non può essere così, quindi si verificherà in molti casi una livellazione al 6, che non rende onore al merito. Si paventa perciò un aggravamento del problema; noi abbiamo proposto anche per l’istruzione media-inferiore una sede di verifica a settembre.
La questione della trasformazione delle università in fondazioni certo ci interessa da vicino: gli attivisti dicono che i costi saliranno tanto da non essere più alla portata dei ceti medio-bassi, con il rischio che l’istruzione universitaria non sia più un diritto per tutti, ma appannaggio e vanto di pochi socialmente privilegiati. La chiusura dei piccoli atenei vanifica anni di “delocalizzazione”, che garantiva più attenzione da parte dei docenti ai singoli alunni e ben rappresentavano la realtà italiana del riscatto socio-economico di tanti piccoli paesi. I più attenti aggiungono che la ricerca in atto nei Campus universitari sarebbe strumentalizzata da enti privati e poco tutelata dallo Stato. Ci piacerebbe, secondo il modello statunitense, che venissero distribuite più cospicue e  numerose borse di studio per gli studenti meritevoli, ma “poveri”.
Un altro tema di acceso dibattito è stato quello delle “classi ponte”: questo progetto rientra nelle riforme dell’istruzione proposto dalla Lega, prevede che per un periodo di sei mesi o un anno i bambini immigrati che non conoscono a lingua vengano inseriti in classi differenziate, solo per stranieri, dove imparino i primi rudimenti di grammatica, ma anche di educazione civica. Secondo la maggioranza fra noi un simile provvedimento non solo rallenterebbe l’apprendimento dell’italiano, che comunque è lingua viva e come tale va imparata dai parlanti locali (chi si trasferisce in un paese straniero lo sa), ma renderebbe ancora più difficile l’integrazione, in quanto si creerebbero delle “nicchie” di immigrati provenienti dalla stessa nazione. Altri asseriscono che si tratterebbe di una soluzione transitoria e che è più facile relazionarsi con altri alunni, che, seppure di altri paesi, condividono la stessa esperienza di immigrazione.
Insomma, a favore o contro? Se si considera la totalità delle nostre quattro sedi” Giulio Cesare-Valgimigli”, si direbbe che la maggioranza è contro, in particolare il liceo delle scienze della formazione, che vede per i suoi futuri diplomati una minore possibilità d’impiego, visto il blocco delle assunzioni nella scuola a partire da quest’anno, e il liceo delle scienze sociali, che ha l’appoggio degli eternamente scontenti centri sociali e che ha risposto con un’autogestione. Il tutto nella pressoché totale mancanza di appoggio da parte degli insegnanti, che in molti hanno deciso di non manifestare. Se si prende in esame la sola sede del Classico, tirare le somme diventa più difficile; si direbbe però, vista la non massiccia presenza alla manifestazione del 31 ottobre, che i provvedimenti incontrino il favore dei più, forse per il maggiore senso di responsabilità, di dovere, di autorità e di disciplina che si riscontra negli appassionati delle “humanae litterae”.
Con una valutazione empirica si può trovare conferma alle percentuali  dell’indagine Demos & Pi apparsa recentemente su “ Repubblica”: alto favore per il voto in condotta e le valutazione in decimi, minore consenso per il maestro unico e preoccupazione perplessità per le classi separate per alunni stranieri.  Ciò che accomuna docenti, studenti, famiglie e opinione pubblica è la convinzione che i recenti provvedimenti siano utili solo a far cassa: fra i favorevoli  per ridurre gli sprechi, fra i più critici, per tagliare i costi e affossare l’istruzione pubblica e la ricerca.
Non si contesta più un passato ingombrante e repressivo, ma si esprime il malessere per il furto del futuro!
                         
                                                                                                                Giulia Ceccarelli