lunedì 17 ottobre 2011

Il distacco in letteratura: senso di perdita e straniamento

 Pubblicato il 29/09/2009 su "La pagina della scuola"

Il distacco in letteratura: senso di perdita e straniamento

Il “distacco” è una componente fondamentale del nostro sviluppo, è il germe della crescita individuale. Perché la vita stessa procede a colpi di distacco. Il primo, traumatico, distacco è quello dal grembo materno, che viene indicato come nascita. Ed è sicuramente il più importante, che già cela in sé il destino dell’uomo: quello di essere individuo, di pensare con la propria testa, di evitare condizionamenti, di riuscire ad essere autosufficienti, senza bisogno di alcun appoggio esterno. Anche se questa è la vocazione dell’uomo espressa dal felice evento di una nascita, a questo risultato non si arriverà che fino diciotto, vent’anni più tardi.
Alla nascita segue infatti il periodo di transizione dell’infanzia, in cui ci si confronta con i modelli che ci offrono parenti, genitori, fratelli. La culla del bambino è la famiglia, o meglio l’idea creativa che lo stesso si fa di essa: non conoscendo il mondo esterno, si aia a scoprire il piccolo microcosmo che la casa gli offre.
Nelle poesie di Pascoli si può trovare il desiderio del poeta di ritornare fanciullo, di ricomporre i nido familiare, l’unico del quale si può fidare, l’unico che gli può offrire aiuto. Questo richiamare il bambino inesperto e insicuro che c’è in lui, questa sindrome del “Peter Pan”, gli fa rievocare i suoi affetti, morti o lontani, in immagini di grande dolcezza.
Con l’adolescenza subentra un nuovo distacco: quello che spinge il ragazzo ad interrogarsi sul mondo, quello esterno, quello vero, che si appresta a conoscere, a sentire il bisogno di un senso della vita, ad avere  la necessità di allontanarsi progressivamente dalla famiglia per crearsi un suo nuovo spazio fra i coetanei, nella società. In linea diretta l’adolescente diventa adulto, ma il senso del distacco non termina, quasi come se l’esistenza stessa volesse allenarci a quell’ultimo e definitivo distacco da noi stessi che è la morte.
Pirandello, ne “Il Fu Mattia Pascal”, offre uno spunto di riflessione proprio sul senso della morte, quasi facendone una parodia: il protagonista, avendo scoperto che nel suo paesino l’hanno trovato morto, decide di cambiare vita, di plasmare una nuova maschera che gli permetta di dimenticare i fastidi della sua ita precedente. Ma la nuova identità che si è scelto è destinata a fallire perché falsa, inconsistente, limitante.
Quando prova a riprendere le vesti di Mattia Pascal, si scontra con l’amara realtà di essere considerato morto da coloro che conosceva  e amava. Alla fin quindi egli perde la sua identità e vive nella sola convinzione di essere stato qualcuno, tanto tempo fa.
A queste divisioni, separazioni, che segnano obbligatoriamente la nostra vita, ne potrebbero subentrare altre, causate dalle nostre esigenze e dai nostri desideri. L’immigrato, ad esempio, che è chiamato ad allontanarsi dalla sua terra, subisce anch’egli un distacco: distacco dalle sue origini, dalla sua cultura, che lo porta a vedere spesso la nova realtà come diversa, spietata, ostile. Ma anche colui che per scelta o per caso si trova a doversi confrontare con altre culture attua un cambiamento di punto di vista che provoca una linea di frattura tra la realtà come l’ ha sempre creduta e la realtà come la vedono gli altri.
Il distacco, per un essere in divenire come l’uomo, può essere un buon strumento di analisi ( o meglio psicoanalisi): lo straniamento dai nostri sentimenti, dalle nostre emozioni può aiutarci a capire i nostri bisogni, a trovare noi stessi. Proprio con questo metodo Italo Svevo, ne “La coscienza di Zeno”, attraverso la forma  del diario porta in Italia il pensiero Freudiano e inserisce nella narrazione in parte autobiografica anche le tematiche dell’inettitudine alla vita, dell’impossibilità di cambiamento,dell’avverso destino.
“Diventa ciò che sei” diceva Nietzsche. Così come le nostre esigenze cambiano, dobbiamo abbandonare le vecchie convinzioni quando non ci appartengono più.
A tutta questa catena infinita di distacchi, di disillusioni, di attaccamenti e abbandoni, si contrappone solo un sentimento di unione: l’Amore. L’amore, specialmente quello fisico, può essere considerato come un inconscio desiderio di ricomporre quel corpo a corpo, quell’intimità, quella voglia di compenetrazione, che avevamo da feti nel corpo di nostra madre. Una condizione che ci fa sentire protetti e sicuri. Solo con l’amore l’uomo si può sentire completo come prima della nascita, perché è esso stesso, come dice Platone, una “parte” che necessita di completamento per rievocare alla memoria quell’antica beatitudine che non ritorna. Ma anche questa passione è concessa solo per pochi istanti, il necessario a colmare la sostanziale solitudine, a sfiorare quel “senso del limite” che è connaturato all’individualità stessa, e che Freud chiama “sentimento oceanico”.
La complessità e la duttilità dell’uomo in fondo è tutta qui, nel distacco. L’affermazione dell’individuo e la conseguente conoscenza di noi stessi, nata da un primo distacco e fonte di ulteriori separazioni e divisioni, è la naturale essenza della nostra esistenza, e quindi l’unico degno scopo della nostra vita.
                                                                                                                      Giulia Ceccarelli

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